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Homo ludens e dipendenza

 

Ma, a nostro avviso, la rappresentazione sociale del gioco d’azzardo è rimasta erroneamente sempre la stessa, nell’immaginario collettivo il gioco è ancora un’attività di nicchia, ad “alta soglia”, che coinvolge esclusivamente certe fasce sociali (intellettuali, artisti, imprenditori) e che richiede un sistema complesso di regole e la messa in campo di abilità mentali e relazionali.

In realtà, in Italia lo scenario è profondamente cambiato. In primis è aumentata in maniera esponenziale l’offerta quantitativa e qualitativa dei giochi. Dal 1993 al 2007 si è passati da 9,47 miliardi di euro a 35 miliardi di euro spesi nel gioco dagli italiani. Nel nostro paese si investono ben 18 miliardi di euro per pubblicizzare il gioco (“Ti piace vincere facile?”). Infine l’Italia avrebbe il 9% della spesa mondiale in giochi autorizzati. E, secondo l’ISTAT, giocano prevalentemente le fasce di popolazione più povere: il 66% di chi gioca è disoccupato.

Anche la tipologia di gioco è cambiata: ai tradizionali “drogati” da casinò si aggiungono quelli che navigano nei siti di gioco virtuale su Internet ma anche quelli degli spericolati investimenti in Borsa. Oggi, inoltre, i giochi sono velocissimi, in pochi secondi si esaurisce una partita e sappiamo che la riduzione del tempo tra la giocata e il rinforzo monetario aumenta il rischio di addiction, perché la dipendenza si instaura sulla base del numero e della frequenza dei rinforzi ricevuti dall’organismo. (Rigliano, Croce, 2001).

Attualmente il gioco ha perso la sua primaria funzione socializzante perché i nuovi giochi tecnologici che scimmiottano in alcuni casi i giochi tradizionali (videopoker, poker on line), sono a-sociali e solitari. In concreto, in una partita a briscola ci si guarda in faccia, cioè si entra in relazione, mentre nel videopoker si parla e spesso ci si arrabbia con uno schermo. E se diverse possono essere le motivazioni che spingono a giocare, il farlo in solitudine può esser una delle cause principali di uno sviluppo problematico (Fisher, 1993; Griffiths 1990) i cui campanelli d’allarme tardano a essere letteralmente visti dalla rete sociale.

Infine la tecnologia, oltre a permettere un gioco invisibile socialmente, favorisce la de-contestualizzazione, ovvero, non esiste più un tempo e uno spazio delimitato in cui ha luogo il rito del gioco che è stato finora bagaglio della cultura di un territorio e di ogni comunità.

Non solo per mezzo di internet ma anche attraverso i cellulari si può giocare e a volte sembra che la cultura si diffonda e si misuri attraverso un SMS che ci incoraggia ad azzeccare la risposta giusta per guadagnarci qualcosa.

In sintesi esiste una maggiore e capillare offerta a livello nazionale e cambiano le modalità di gioco, aumenta quindi il numero di persone che giocano e di conseguenza il numero potenziale di persone che vanno incontro a dipendenza.

Nonostante il gioco d’azzardo patologico venga considerato e classificato come malattia mentale dall’APA nel DSM – IV, e ricalchi i sintomi tipici della dipendenza da sostanze (fenomeni di tolleranza, astinenza e craving), accanto a tale riconoscimento ufficiale da parte del mondo scientifico, sembra essere al momento piuttosto debole un riconoscimento di tale problema da parte della società e delle istituzioni, in termini di strategie preventive e di risposta, ossia di trattamenti e percorsi di cura previsti.

Nonostante le diverse similitudini e sovrapposizioni tra dipendenze non da sostanze e dipendenza con sostanze la loro risonanza, a livello sociale, è profondamente diversa.

La mancanza di una sostanza esterna, socialmente riconosciuta come “cattiva” e pericolosa e verso la quale vi è un condiviso rifiuto, e l’accettabilità sociale e la legalità di alcune condotte, fanno sì che le dipendenze comportamentali, non solo il gioco d’azzardo patologico, rimangano principalmente un fenomeno sommerso, con il rischio di sottovalutarne i rischi esistenti per il benessere dell’individuo. La caratteristica di legalità del gioco, tanto sbandierata, non è sufficiente a garantire in sé la tutela della salute del giocatore, né la certezza di evitare fenomeni di indebitamento (Capitanucci, 2006).

Per concludere, queste forme di dipendenza non da sostanze (gambling, dipendenza da internet, shopping compulsivo) presentano non sono solo temi di interesse clinico e speculativo, anche per comprendere le cosiddette dipendenze da sostanze, ma anche costi sociali e sanitari di forte rilievo (Politzer, Morrow, 1980; Croce, 2001, b) dei quali non esiste ancora una coscienza condivisa.


Scheda pratica per "Homo ludens e dipendenza"
Note AUTRICI: Lucia Giustina, psicologa a contratto presso il Ser.T di Parma; Valeria Lo Nardo, psicologa specializzanda presso il Ser.T di Parma e presso il Centro di Consulenza e Terapia della famiglia DSM-DP Ausl Parma
Proprietà dell'articolo
creato: venerdì 14 novembre 2008
modificato: venerdì 14 novembre 2008